mercoledì, settembre 20, 2006

Visionariando

La pentola del ‘77

Quando fu la prima volta che mi misero alla tavola imbandita dell'educazione non lo ricordo. Probabilmente saranno ormai passati venticinque anni. Allora non riuscivo ancora a scalare autonomamente la sedia che ammetteva al -pasto del sapere- e probabilmente ancora oggi, a volte, necessito di una spintarella affettuosa. Ricordo tuttavia perfettamente il bianco candido della tovaglia -sociale-, l'ordine rigoroso della disposizione delle posate chiamate grammatica, ubbidienza, correttezza e sincerità. Solide e pesanti contornavano piatti impeccabili e senza sbocconcellature. Credo volessero convincermi che quelli erano gli unici contenitori possibili ed ammissibili per potervi versare il pasto della conoscenza. Stoviglie ordinate anch'esse, dai nomi -piatti- e impersonali: materne, elementari, superiori, università. Solo molto più tardi conobbi modi più affascinanti per dedicarsi al pasto ma mai mi sono appartenuti e probabilmente (e sfortunatamente) mai mi apparterranno; questa comunque è un'altra storia.

Rimasi per diversi anni annoiatamente seduto al medesimo tavolo, con la medesima apparecchiatura. Mangiando medesimi pasti; magari di volta in volta dalle porzioni più generose ma comunque medesimi.

Tra le cose che ricordo ha un posto particolare la prima disobbedienza nutrizionale. Fu nei modi più che nei contenuti. Dopo un decennio trascorso a guardare inerme ma soprattutto disinteressato i primi compagni di pasto incrociare tra se i denti delle forchette, roteare i bicchieri e sbattere i piatti nel clamore generale di insegnanti e genitori accorsi, iniziai a nutrire una curiosità morbosa per quei comportamenti che sembravano tanto destabilizzare l'ordine (e la quiete) costituito; non smisi di usare le vettovaglie ma mi sentii ben presto più libero nelle evoluzioni delle posate, nel tintinnio del vetro e dei cocci.

Giunse l'adolescenza. Il disadattamento al galateo educativo apriva nuove falle e non furono più soltanto i mezzi ad iniziare ad annoiare. Credo che fu per noia infatti che chiesi per la prima volta perchè di giorno in giorno, mese in mese, anno in anno il menù non cambiava.

Senza variazione alcuna, meccanica e sistematica, addobbavano la tavola sempre i medesimi cibi. L'insegnante-cameriere non credo rispose mai e se lo fece accadde troppo lontano dalle mie orecchie poiché io potessi sentirlo.

Il sacro rito educativo andava esplicato secondo convenzioni prestabilite e non incontrai nessun caposala, sommelier, inserviente, lavapiatti disposto a contravvenire alle regole.

Ero stanco. Satollo all'inverosimile di pietanze perfette e bilanciate, insipide e ipoallergiche. Storie sentite e ripetute troppe volte per conservare fascino, ammesso che inizialmente ne avessero uno.

Canoniche e senza variabili in ogni racconto.

La mia educazione è stata quella. Decisamente. Bilanciata, insipida e ipoallergica. Perfetta certamente No. Non era altro che la solita, medesima, identica educazione comune al resto dei miei compagni. Praticamente senza eccezione alcuna.

Avevo fame ed ero curioso. Lo sono ancora curioso in effetti e mentre sto scrivendo ho decisamente fame.

Stanco del salutismo, curioso e affamato. Probabilmente fu in quel momento e in quella situazione che vidi per la prima volta quella pentola.

Quelle che avevo mangiate fino ad allora non erano le uniche pietanze esistenti e mi era capitato sempre più assiduamente di vedere guizzare tra i tavoli i resti di cibi sconosciuti. Tali sarebbero restati ancora per un poco vista l’attenzione e la meticolosità che i miei educatori mettevano nel pulire le stoviglie inquisite, cancellare tracce ed aloni, dissolvere gli odori. Certi pasti venivano semplicemente dichiarati mai esistiti.

Ai più dei miei compagni questo fu sufficiente per far dimenticare in fretta brevi lampi gastronomici fuori dieta. Ancora oggi, trentenni e rampanti, non hanno cambiato abitudini e sostengono che qualsiasi sistema nutrizionale diverso da quello con cui sono cresciuti alteri il loro sistema e con esso la salute.

La mia salute mentale invece chiedeva a gran voce novità. E il fatto che questa richiesta di novità coincidesse speso con la –verità taciuta- fu una scoperta di molto dopo. Fu ancora per curiosità che, tra tutte le portate di cui di giorno in giorno venivo a conoscenza, quella pentola nera dal fuoco trentennale e ancora borbottante per il pigro bollire divenne un vero oggetto misterioso.

Avevo ormai imparato a rispettare chi mangiava con le mani, non augurava il buon appetito e non chiedeva se qualcuno volesse finire l’ultimo bis. In realtà non sono passati che pochi anni e questo passato remoto forse è solo il frutto di chi si ferma a guardarsi indietro senza riuscire a mettere a fuoco la distanza percorsa.

Avevo conosciuto una donna che solo per errore era finita costretta nella divisa della mensa culturale o che forse, con quegli abiti indosso, tentava di cambiare le regole. Non ha rilevanza questo.

Fu lei tuttavia la prima persona che portò in tavola la pentola. Nei vestiti morbidi di chi aveva mancato la preparazione della pietanza solo di qualche mese, appoggiò la pentola al centro della tavola e lasciò che rimanessimo affascinati dal coperchio che a cadenze irregolari sbatteva sempre più lentamente e quasi tintinnando sul bordo superiore.

Passò molto tempo prima che sapessi distaccarne gli occhi e mi domandassi infine cosa ci fosse e perché fosse stata tenuta così lontana da tutti noi per tutti questi anni.

Erano stati proprio i camerieri più cordiali e intimi, vecchi saggi bordati di rosso, a desiderarne di più l’accantonamento; ed era comunque per un certo verso innaturale coltivare quella morbosa attenzione per la pentola. Non tanto un contravvenire alle regole quanto un contravvenire alle persone che avevano voluto nascondere.

La pentola adesso è in tavola. La tavola è incorniciata dai commensali. I commensali adesso si guardano, oltre che guardare la pentola. E so che guardarci dentro non è uno sfogo primordiale della curiosità. Diventa necessità.

La pentola del settantasette è in tavola. Il saper guardare solo i resti incrostati della pietanza bruciata è passato.

La pietanza affascina e sono stanco di ostacoli. Non siamo alla ricerca di ricette perfette ma di esperienze. Senza dimenticare gli errori con cui la pentola si è scottata. Senza dimenticarne i contenuti: riappropriazione di spazio e tempo.

Intuizioni da non poter perdere, da coltivare nuovamente, riscoprirei, rielaborare e con cui imbandire nuovamente. Intuizioni chiamate rifiuto del lavoro, occupazione, controinformazione e con centinaia di altri nomi.

Servono cuochi. Servono ingredienti. E servono commensali.

Nessun cameriere, nessuna posata, nessun galateo.

Non sarò certo io ad apparecchiare ma ho fame. E sono curioso.

Ora di cena.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Adoro le metafore. Sono il mio pane quotidiano, parlando di pasti. Sorrido.(senza plagio)